Il “Gran” Pontano pensatore dell’ordine politico
In questo contesto l’obbedienza è avvertita come massimo limite alla libertà personale dell’uomo ; mentre la libertà si ritiene consista nel vivere come si vuole. L’uomo libero, insomma, sarebbe colui che vive in ogni istante secondo il proprio volere ; volere completamente arbitrario e non soggetto a regola alcuna. Non più un ergersi fortemente e tragicamente contro le regole, infrangendole sapendo di infrangerle, bensì la pretesa di non avere regole nella vita quotidiana e di seguire momento per momento i propri impulsi e i propri desideri, quali che essi siano.
Al contrario, Giovanni Pontano scrive che costoro, quelli che vivono senza regola, non sono veri uomini liberi, benché forse credano di esserlo. Tutti siamo infatti d’accordo che libero è colui che segue la ragione, mentre è schiavo colui che segue i propri appetiti e le proprie passioni. Abbiamo sempre considerato schiavi i barbari, perché non hanno leggi e seguono soltanto i loro istinti e le loro passioni ; ma allora, se vogliamo essere conseguenti, dobbiamo ritenere liberi coloro che, al contrario, hanno leggi e ne seguono scrupolosamente le norme. Ne consegue che sono liberi il figlio che obbedisce al padre, l’allievo che obbedisce al maestro, il soldato che obbedisce al suo comandante, il cittadino che obbedisce al governante, il suddito che obbedisce al re. Libertà e obbedienza coincidono né la prima può esistere senza la seconda. In realtà proprio chi vive in assoluta licenza, facendo sempre ciò che desidera, viola la libertà ; il barbaro dalle passioni sfrenate (come e peggio ancora il disobbediente di oggi) non è libero ; tutt’al più crederà erroneamente di esserlo, mentre è vero il contrario. Pertanto, anche se siamo nati liberi, anzi proprio per questo, dobbiamo obbedire e tanto più saremo liberi quanto più obbediremo ((DO, c.31rv.
)) . Il problema della libertà si risolve, per Pontano come per altri umanisti, nel problema dell’ordine.
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Al di là di ogni dubbio per Giovanni Pontano la miglior forma di governo è quella del solo : tutto il suo discorso dimostra che il governo monarchico è il migliore. Ed in questo trova buona compagnia negli altri scrittori politici del regno di Napoli nel Quattrocento, rispetto ai quali peraltro vediamo nel De obedientia una maggior attenzione al problema della forma di governo, un più evidente intendimento di approfondire la questione, una maggiore sensibilità alle possibili obiezioni contro la monarchia e alle possibili difese delle altre forme di governo. Per gli altri trattatisti la monarchia è un dato di fatto, che non prevede alternative e non ha bisogno di sostegno teorico, ma soltanto di modelli di buon sovrano, di incitamenti alla virtù, di qualche riferimento antico ; qui invece Pontano alla monarchia dà anche un più solido fondamento teorico ((DO, cc.29v e 30v.
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Guardiamo alla natura, che è la somma maestra. In natura un solo cuore governa il corpo dell’uomo ; una sola ragione governa l’anima dell’uomo ; un solo Dio governa l’universo. Se in natura il governo del solo è la regola, perché mai i popoli dovrebbero essere governati diversamente ? Il governo del solo è così evidente nella sua naturalezza che persino i bambini nelle loro filastrocche non fanno che proclamare che “uno è Dio ed uno solo è il re” ((DO, c.31rv.
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Oltre la natura anche la ragione ci mostra che il governo del solo è l’unico ragionevole, duraturo, libero. La molteplicità delle opinioni infatti genera discordia né può essere diversamente ; e ciò provoca inevitabilmente disagi e mali infiniti, che colpiscono tutti. Al contrario fioriscono quelle città, i cui governanti hanno unità di sentire e di volere. Ciò che occorre è una profonda unità di intenti, un sentimento comune, un consenso di fondo fra i governanti sugli obiettivi della vita sociale ; e questa unità è più facilmente realizzabile, se il governante è già fisicamente uno ed uno solo, perché non gli è possibile trovarsi in contraddizione con se stesso. Ecco dunque che la ragione ci dice che il governo del solo è il migliore, poiché consente di superare immediatamente il problema delle discordie fra governanti ((DO, c.29v.
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Anche la storia si pronuncia a favore dei re. Come ha scritto Cicerone, la monarchia fu la prima forma di governo ; i re furono coloro che per primi trassero gli uomini fuori dalle selve per condurli a una vita civile. Inoltre quante volte nella storia abbiamo visto piccole città, governate dalla moltitudine, precipitare nel disordine delle discordie e quasi perire, mentre grandi Stati, governati dai re, hanno durato a lungo nel tempo, stabili e in pace ? Giovanni Pontano scrive chiaramente di piccole città travagliate dalle discordie, mentre grandissimi regni vivono tranquilli e in pace, rafforzando così il significato storico del riferimento. Se la molteplicità dei governanti porta discordia anche dove gli uomini sono pochi, mentre moltissimi uomini vivono nella concordia quando hanno un re, ciò significa necessariamente che la forza dell’unità di governo del sovrano è grandissima, come per converso è grandissima la forza dirompente della molteplicità dei governanti. Insomma, qui si nega di fatto, anche se forse non volutamente come riferimento diretto, quanto asserito poco più di un secolo prima da Bartolo da Sassoferrato, per il quale ai grandi Stati si addice la monarchia, mentre la democrazia ben si adatta ai piccoli e l’aristocrazia ai medi. Qui invece il governo plurimo, aristocratico o democratico, non va bene neppure per le piccole città, non va bene per nessuno. Soltanto nelle monarchie l’uomo può godere contemporaneamente della vera libertà conforme ai dettami della ragione e del vero ordine della vita sociale. D’altronde, non ci si illuda : anche nelle democrazie e nelle aristocrazie esiste sempre un qualcuno, che in realtà governa personalmente anche se formalmente il governo è nelle mani del gruppo. Osservazione estremamente acuta, nella quale forse possiamo leggere un velato riferimento a situazioni italiane che il nostro ben conosceva, come quella di Firenze con Cosimo il Vecchio ((DO, cc.30r-31r.
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In questo contesto, trattando del governo delle province del Regno, Giovanni Pontano fa delle considerazioni quanto mai interessanti ((DO, cc.37v-38r.
)) . I governatori, scrive nel De obedientia, devono soprattutto rispettare le leggi e osservare e far osservare sempre la giustizia. E fin qui si tratta di un precetto scontato e ovvio. Ma Pontano va ben oltre, perché avverte molto bene la necessità di calare nella realtà quotidiana i precetti di giustizia, che ci vengono offerti dalla dottrina ; realtà quotidiana che per i governanti dei territori del regno, così diversi fra loro, consiste spesso nel trovare un difficile equilibrio non soltanto fra interessi contrastanti, ma anche fra ordinamenti giuridici concorrenti, che insistono sulla stessa regione. Un territorio, come quello del regno di Napoli, dove legislazione regia, baronale, municipale, diritto romano e canonico, convergono per rendere giuridicamente ancora più difficile una situazione politicamente e socialmente complessa.
La risposta al problema è chiarissima ed interessante. Nel rendere giustizia gli incaricati del governo delle province debbono avere sempre ben presenti tre indicazioni : prima di tutto debbono riferirsi alla volontà del sovrano o del supremo magistrato ; in secondo luogo debbono considerare quanto è stabilito dal diritto del regno e dalla normativa particolare delle comunità ; in terzo luogo debbono tenere conto del diritto comune e del diritto imperiale. In altre parole, continua Pontano rovesciando la direzione del discorso per rafforzarne il significato, le norme del Regno e le leggi cittadine dovranno prevalere sul diritto civile ; la volontà del Re dovrà prevalere su tutte.