- Revue Catholica - https://www.catholica.presse.fr -

Il “Gran” Pon­ta­no pen­sa­tore dell’ordine poli­ti­co

[Gen­naio 2005]

Quan­do nel 1458 muore Alfon­so il Magna­ni­mo, pri­mo re ara­go­nese di Napo­li, il suc­ces­sore, il figlio Fer­rante, deve com­bat­tere una duris­si­ma guer­ra di suc­ces­sione, che si conclu­derà con la sua vit­to­ria sol­tan­to nel 1464. Ha contro il papa e gli Angioi­ni, pre­ten­den­ti al tro­no di Napo­li, ma il pro­ble­ma poli­ti­ca­mente e sto­ri­ca­mente più grave è nel ceto dei baro­ni, i nobi­li del Regno. Uomi­ni valo­ro­si in guer­ra e abi­li poli­ti­ca­mente, ma gui­da­ti più dagli inter­es­si per­so­na­li e fami­lia­ri che dall’i­dea del bene comune del Regno, gelo­si delle loro auto­no­mie, ris­so­si, pron­ti al conflit­to, capa­ci di cam­biare cam­po più volte nel­la loro vita. Non sono tut­ti così (è ovvio) ma mol­ti fra di loro lo sono, cosic­ché ques­ta è da sempre la debo­lez­za pri­ma e prin­ci­pale del Regno.
Tes­ti­mone atten­to di ques­ta guer­ra è un gio­vane pro­ve­niente dall’Um­bria, che a Napo­li sta per­cor­ren­do una lumi­no­sa car­rie­ra, fino a diven­tare pri­mo minis­tro di Fer­rante nel 1485. È Gio­van­ni Pon­ta­no, nato nel 1429 a Cer­re­to di Spo­le­to in Val­ne­ri­na, che gio­va­nis­si­mo ha avu­to l’ar­dire di pre­sen­tar­si ad Alfon­so il Magna­ni­mo, che guer­reg­gia­va in Tos­ca­na, chie­den­do di essere pre­so al suo ser­vi­zio. Alfon­so, otti­mo conos­ci­tore di uomi­ni, ave­va capi­to il valore di ques­to gio­vane pro­vin­ciale e lo ave­va por­ta­to a Napo­li. Uomo ver­sa­tile e polie­dri­co, alla car­rie­ra poli­ti­ca e diplo­ma­ti­ca Pon­ta­no affian­ca un grande talen­to poe­ti­co (per mol­ti è il più grande poe­ta lati­no dopo l’an­ti­chi­tà) e una inten­sa atti­vi­tà di scrit­tore di dia­lo­ghi sati­ri­ci e di opere di sto­ria, eti­ca e poli­ti­ca. Ver­so la fine del­la sua vita la sua fama è tale che è uni­ver­sal­mente chia­ma­to “il gran Pon­ta­no”. Morirà a Napo­li nel 1503  ((Per quan­to riguar­da il pen­sie­ro poli­ti­co di Gio­van­ni Pon­ta­no mi per­met­to di rin­viare a Clau­dio Fin­zi, Re, baro­ni, popo­lo. La poli­ti­ca di Gio­van­ni Pon­ta­no, Il Cer­chio, Rimi­ni 2004.
)) .
Pon­ta­no inizia la sua rifles­sione poli­ti­ca scri­ven­do il De prin­cipe, trat­ta­tel­lo epis­to­lare indi­riz­za­to ad Alfon­so, duca di Cala­bria ed erede al tro­no, del quale era pre­cet­tore  ((Gio­van­ni Pon­ta­no, Ad Alfon­sum Cala­briae Ducem De prin­cipe liber, a cura di Gui­do M. Cap­pel­li, tes­to lati­no con ver­sione ita­lia­na a fronte, Roma 2003.
)) . Vi des­crive con intel­li­gen­za e acu­tez­za il sovra­no ideale, ric­co di virtù non sol­tan­to mora­li ma poli­tiche, accor­to, atten­to al benes­sere dei sud­di­ti, alla gius­ti­zia, ma anche agli inter­es­si degli uomi­ni e del Regno. Ora, negli anni dif­fi­ci­li del­la guer­ra di suc­ces­sione e in quel­li imme­dia­ta­mente pos­te­rio­ri fino al 1470, scrive il De obe­dien­tia, trat­ta­to dedi­ca­to all’a­na­li­si e allo stu­dio del­la virtù dell’ob­be­dien­za, che Pon­ta­no consi­de­ra impor­tan­tis­si­ma a tut­ti i livel­li, tan­to nel pri­va­to quan­to nel pub­bli­co, dal­la fami­glia fino al Regno  ((Il De obe­dien­tia, com­ple­ta­to nel 1470, fu stam­pa­to a Napo­li dal tipo­gra­fo Mat­tia Mora­vo nel 1490. Non ne abbia­mo edi­zio­ni moderne ; occorre quin­di ricor­rere alle edi­zio­ni del Quat­tro­cen­to o del Cin­que­cen­to. Qui fac­cio rife­ri­men­to a Gio­van­ni Pon­ta­no, De obe­dien­tia, in Ope­ra omnia solu­ta ora­tione com­po­si­ta, Vene­tiis in aedi­bus Aldi et Andreae soce­ri, tre volu­mi, 1518–1519, vol.I, cc.1–48 (De obe­dien­tia = DO).
)) .
Atten­zione ! Per Gio­van­ni Pon­ta­no qui il pro­ble­ma non è sol­tan­to morale ed eti­co ; anzi ques­to è l’as­pet­to che in ques­to contes­to meno lo inter­es­sa. Ciò che gli impor­ta è la fun­zione sociale e poli­ti­ca dell’ob­be­dien­za ; il suo pro­ble­ma è indi­vi­duare un fon­da­men­to alla socie­tà, a quel­la socie­tà meri­dio­nale lace­ra­ta dagli inter­es­si e dalle intem­pe­ranze dei baro­ni, che ren­do­no impos­si­bile la convi­ven­za ordi­na­ta degli uomi­ni. La for­za da sola non bas­ta ; l’as­tu­zia nep­pure ; gli inter­es­si non gli sem­bra­no suf­fi­cien­ti : occorre qual­co­sa di più, un legame fra gli uomi­ni, che abbia in sé sia la for­za sia la virtù. Ques­to legame per Gio­van­ni Pon­ta­no è appun­to l’ob­be­dien­za. ma quale obbe­dien­za ? Tut­to il suo trat­ta­to è un lun­go e atten­to ragio­nare su ques­to pun­to.
Tut­ta la convi­ven­za uma­na, scrive Gio­van­ni Pon­ta­no, è radi­ca­ta nell’ob­be­dien­za. La pri­ma obbe­dien­za è inter­na all’a­ni­mo dell’uo­mo e consiste nell’ob­be­dien­za delle pas­sio­ni alla ragione, sen­za la quale i moti dell’a­ni­mo vaghe­reb­be­ro incon­trol­la­ti por­tan­do l’uo­mo stes­so alla rovi­na. Ma l’ob­be­dien­za non è sol­tan­to un mero rico­nos­ci­men­to intel­let­tuale o morale delle norme del­la ragione. Se così fosse, l’ob­be­dien­za potrebbe anche res­tare inope­rante sul pia­no concre­to, qua­si com­pia­ci­men­to inter­no dell’uo­mo contem­plante le norme. Invece l’ob­be­dien­za è il concre­to rac­cor­do tra la ragione e la volon­tà dell’uo­mo. Non bas­ta conos­cere il bene, occorre anche voler­lo fare, voler­lo ren­dere concre­to nell’a­gire quo­ti­dia­no, quan­do l’ap­pli­ca­zione del bene può esser­ci fati­co­sa, fas­ti­dio­sa, peno­sa. Qui inter­viene l’ob­be­dien­za, sor­reg­gen­do la nos­tra volon­tà, quan­do ques­ta pre­tende che noi agia­mo ret­ta­mente  ((DO, cc.2r e 5v.
)) .
Da ques­to suo pri­mo luo­go poi l’ob­be­dien­za per­corre tut­ta la socie­tà in tutte le sue mul­ti­for­mi e stra­ti­fi­cate arti­co­la­zio­ni : dal­la fami­glia alla cit­tà al Regno. Gli uomi­ni tut­ti sono lega­ti in una serie di rap­por­ti coman­do obbe­dien­za, fuo­ri dei qua­li nes­su­no può vivere. Il consor­zio uma­no è ret­to dall’ob­be­dien­za, come ci mos­tra­no e dimos­tra­no la natu­ra e la sto­ria. Di obbe­dien­za si scri­ve­va e par­la­va allo­ra, nel Quat­tro­cen­to, anche nelle altre cit­tà ita­liane e in contes­ti mol­te­pli­ci, ma il dis­cor­so pon­ta­nia­no ha qual­co­sa di par­ti­co­lare. A Firenze, per esem­pio, si riaf­fer­ma­va sempre e con for­za la neces­si­tà di obbe­dire alle leg­gi ; il dis­cor­so di Pon­ta­no invece guar­da ai rap­por­ti diret­ti tra gli uomi­ni : ciò che conta è l’ob­be­dien­za dell’uo­mo all’uo­mo, mol­to più di quel­la dell’uo­mo alla legge. C’è negli scrit­ti pon­ta­nia­ni una concre­tez­za dei rap­por­to socia­li, che altrove invece qua­si si vani­fi­ca nel rap­por­to tra legge e uomo. I baro­ni non deb­bo­no obbe­dire a norme astratte, deb­bo­no invece obbe­dire al Re e a chi lo rap­pre­sen­ta.
Negli scrit­ti di Pon­ta­no l’ob­be­dien­za non è mai mera pas­si­vi­tà, mero obbli­go di ese­guire i coman­di del super­iore in osse­quio alla neces­si­tà ter­ri­bile di far fun­zio­nare la socie­tà. L’ob­be­dien­za è rac­cor­do tra ragione e volon­tà, lo abbia­mo appe­na det­to ; ma non bas­ta. All’ob­be­dien­za infat­ti cor­ris­ponde esat­ta­mente e sim­me­tri­ca­mente la gius­ti­zia : se l’in­fe­riore deve obbe­dien­za al super­iore, sim­me­tri­ca­mente il super­iore deve gius­ti­zia all’in­fe­riore. Tut­ta la socie­tà è ret­ta da ques­ti rap­por­ti dupli­ci e biuni­vo­ci : obbe­dien­za dal bas­so ver­so l’al­to, gius­ti­zia dall’al­to ver­so il bas­so. Cosic­ché pos­sia­mo ben dire che l’in­fe­riore ha il dovere di obbe­dien­za al super­iore, ma allo stes­so tem­po ha il dirit­to ad essere gui­da­to e gover­na­to con gius­ti­zia ; e d’al­tro can­to il super­iore ha sì dirit­to all’ob­be­dien­za dell’in­fe­riore, ma allo stes­so tem­po ha il dovere di gover­nare e gui­dare con gius­ti­zia. Ad ogni dovere cor­ris­ponde un dirit­to e ad ogni dirit­to cor­ris­ponde un dovere ; in ogni livel­lo del­la socie­tà  ((DO, c.13r.
)) .
Così nell’o­pe­ra di Gio­van­ni Pon­ta­no l’ob­be­dien­za perde ogni conno­ta­zione di mera pas­si­vi­tà per far­si vero legante sociale e poli­ti­co insieme con la gius­ti­zia. L’ob­be­dien­za qui è par­te­ci­pa­zione alla socie­tà e alla poli­ti­ca, anche per­ché qua­si nes­su­no sarà tenu­to esclu­si­va­mente all’ob­be­dien­za. Sol­tan­to nel livel­lo più bas­so del­la socie­tà esis­to­no uomi­ni, che deb­bo­no solo obbe­dire, come all’al­tro estre­mo il Re ha sol­tan­to obbli­ghi di gius­ti­zia non com­pen­sa­ti da obbli­ghi di obbe­dien­za. Ben­ché sia pur neces­sa­rio ricor­dare che anche il Re deve obbe­dire a Dio ed anche il più umile dei ser­vi deve fare in modo che la sua ragione coman­di gius­ta­mente alle sue pas­sio­ni.
Sia­mo dunque ben lon­ta­ni da quelle cari­ca­ture dell’ob­be­dien­za, inte­sa non più come virtù bensì come difet­to e imper­fe­zione, che cir­co­la­no nel nos­tro mon­do di oggi, nel quale si esal­ta la disob­be­dien­za. Le attua­li des­cri­zio­ni dell’ob­be­dien­za la des­cri­vo­no appun­to come mera pas­si­vi­tà, come rinun­cia ad avere una pro­pria ani­ma, un pro­prio volere ; cosic­ché ogni disob­be­dien­za è inte­sa e valu­ta­ta come meri­to contro l’op­pres­sione, che nell’ob­be­dien­za si incar­ne­rebbe. Non a caso una fran­gia piut­tos­to consis­tente del movi­men­to anar­coide e anti­glo­ba­lis­ta ita­lia­no defi­nisce se stes­sa chia­man­do­si dei “disob­be­dien­ti”.
In tal modo per­al­tro anche chi oggi esal­ta la disob­be­dien­za ne fa un qual­co­sa di mise­ro e ple­beo. Altre volte nel­la sto­ria degli ulti­mi seco­li la disob­be­dien­za è sta­ta esal­ta­ta come mas­si­ma espres­sione di un uomo, che intende e vuole ani­mo­sa­mente spez­zare le regole, vuole diven­tare rego­la e legge a se stes­so, asso­lu­ta­mente e com­ple­ta­mente libe­ro. È il mito dell’uo­mo, che tut­to sfi­da e tut­ti affron­ta, misu­ra uni­ca di se stes­so ; il mito dell’uo­mo com­ple­ta­mente auto­no­mo. E d’al­tronde per­si­no nel tar­do medioe­vo alcune figure di dan­na­ti dell’in­fer­no nel­la Divi­na com­me­dia del nos­tro Dante Ali­ghie­ri han­no una loro gran­dez­za, infer­nale ma gran­dez­za, quan­do con la loro per­ti­nace disob­be­dien­za sem­bra­no qua­si sfi­dare o per­si­no aper­ta­mente e orgo­glio­sa­mente sfi­da­no lo stes­so Iddio, che li ha condan­na­ti. Ma di ques­ta gran­dez­za nul­la res­ta nel­la disob­be­dien­za contem­po­ra­nea, espres­sione mise­ra e minu­ta di un desi­de­rio di fare ciò che piace, di vivere come si vuole non nel­la gran­dez­za di una sfi­da impos­si­bile, bensì nel­la pochez­za del­la quo­ti­dia­ni­tà. Insom­ma : dal­la grande sfi­da al pro­prio pic­co­lo pia­cere quo­ti­dia­no, al pro­prio pic­co­lo como­do, al pre­ten­dere di poter com­piere sen­za rim­pro­ve­ri le pro­prie minus­cole e vol­ga­ri nefan­dezze per­so­na­li.
In ques­to contes­to l’ob­be­dien­za è avver­ti­ta come mas­si­mo limite alla liber­tà per­so­nale dell’uo­mo ; mentre la liber­tà si ritiene consis­ta nel vivere come si vuole. L’uo­mo libe­ro, insom­ma, sarebbe colui che vive in ogni istante secon­do il pro­prio volere ; volere com­ple­ta­mente arbi­tra­rio e non sog­get­to a rego­la alcu­na. Non più un erger­si for­te­mente e tra­gi­ca­mente contro le regole, infran­gen­dole sapen­do di infran­gerle, bensì la pre­te­sa di non avere regole nel­la vita quo­ti­dia­na e di seguire momen­to per momen­to i pro­pri impul­si e i pro­pri desi­de­ri, qua­li che essi sia­no.
Al contra­rio, Gio­van­ni Pon­ta­no scrive che cos­to­ro, quel­li che vivo­no sen­za rego­la, non sono veri uomi­ni libe­ri, ben­ché forse cre­da­no di esser­lo. Tut­ti sia­mo infat­ti d’ac­cor­do che libe­ro è colui che segue la ragione, mentre è schia­vo colui che segue i pro­pri appe­ti­ti e le pro­prie pas­sio­ni. Abbia­mo sempre consi­de­ra­to schia­vi i bar­ba­ri, per­ché non han­no leg­gi e seguo­no sol­tan­to i loro istin­ti e le loro pas­sio­ni ; ma allo­ra, se voglia­mo essere conse­guen­ti, dob­bia­mo rite­nere libe­ri colo­ro che, al contra­rio, han­no leg­gi e ne seguo­no scru­po­lo­sa­mente le norme. Ne consegue che sono libe­ri il figlio che obbe­disce al padre, l’al­lie­vo che obbe­disce al maes­tro, il sol­da­to che obbe­disce al suo coman­dante, il cit­ta­di­no che obbe­disce al gover­nante, il sud­di­to che obbe­disce al re. Liber­tà e obbe­dien­za coin­ci­do­no né la pri­ma può esis­tere sen­za la secon­da. In real­tà pro­prio chi vive in asso­lu­ta licen­za, facen­do sempre ciò che desi­de­ra, vio­la la liber­tà ; il bar­ba­ro dalle pas­sio­ni sfre­nate (come e peg­gio anco­ra il disob­be­diente di oggi) non è libe­ro ; tutt’al più cre­derà erro­nea­mente di esser­lo, mentre è vero il contra­rio. Per­tan­to, anche se sia­mo nati libe­ri, anzi pro­prio per ques­to, dob­bia­mo obbe­dire e tan­to più sare­mo libe­ri quan­to più obbe­di­re­mo  ((DO, c.31rv.
)) . Il pro­ble­ma del­la liber­tà si risolve, per Pon­ta­no come per altri uma­nis­ti, nel pro­ble­ma dell’or­dine.

*   *   *

Al di là di ogni dub­bio per Gio­van­ni Pon­ta­no la miglior for­ma di gover­no è quel­la del solo : tut­to il suo dis­cor­so dimos­tra che il gover­no monar­chi­co è il migliore. Ed in ques­to tro­va buo­na com­pa­gnia negli altri scrit­to­ri poli­ti­ci del regno di Napo­li nel Quat­tro­cen­to, ris­pet­to ai qua­li per­al­tro vedia­mo nel De obe­dien­tia una mag­gior atten­zione al pro­ble­ma del­la for­ma di gover­no, un più evi­dente inten­di­men­to di appro­fon­dire la ques­tione, una mag­giore sen­si­bi­li­tà alle pos­si­bi­li obie­zio­ni contro la monar­chia e alle pos­si­bi­li difese delle altre forme di gover­no. Per gli altri trat­ta­tis­ti la monar­chia è un dato di fat­to, che non pre­vede alter­na­tive e non ha biso­gno di sos­te­gno teo­ri­co, ma sol­tan­to di model­li di buon sovra­no, di inci­ta­men­ti alla virtù, di qualche rife­ri­men­to anti­co ; qui invece Pon­ta­no alla monar­chia dà anche un più soli­do fon­da­men­to teo­ri­co  ((DO, cc.29v e 30v.
)) .
Guar­dia­mo alla natu­ra, che è la som­ma maes­tra. In natu­ra un solo cuore gover­na il cor­po dell’uo­mo ; una sola ragione gover­na l’a­ni­ma dell’uo­mo ; un solo Dio gover­na l’u­ni­ver­so. Se in natu­ra il gover­no del solo è la rego­la, per­ché mai i popo­li dovreb­be­ro essere gover­na­ti diver­sa­mente ? Il gover­no del solo è così evi­dente nel­la sua natu­ra­lez­za che per­si­no i bam­bi­ni nelle loro filas­trocche non fan­no che pro­cla­mare che “uno è Dio ed uno solo è il re”  ((DO, c.31rv.
)) .
Oltre la natu­ra anche la ragione ci mos­tra che il gover­no del solo è l’u­ni­co ragio­ne­vole, dura­tu­ro, libe­ro. La mol­te­pli­ci­tà delle opi­nio­ni infat­ti gene­ra dis­cor­dia né può essere diver­sa­mente ; e ciò pro­vo­ca inevi­ta­bil­mente disa­gi e mali infi­ni­ti, che col­pis­co­no tut­ti. Al contra­rio fio­ris­co­no quelle cit­tà, i cui gover­nan­ti han­no uni­tà di sen­tire e di volere. Ciò che occorre è una pro­fon­da uni­tà di inten­ti, un sen­ti­men­to comune, un consen­so di fon­do fra i gover­nan­ti sugli obiet­ti­vi del­la vita sociale ; e ques­ta uni­tà è più facil­mente rea­liz­za­bile, se il gover­nante è già fisi­ca­mente uno ed uno solo, per­ché non gli è pos­si­bile tro­var­si in contrad­di­zione con se stes­so. Ecco dunque che la ragione ci dice che il gover­no del solo è il migliore, poi­ché consente di super­are imme­dia­ta­mente il pro­ble­ma delle dis­cor­die fra gover­nan­ti  ((DO, c.29v.
)) .
Anche la sto­ria si pro­nun­cia a favore dei re. Come ha scrit­to Cice­rone, la monar­chia fu la pri­ma for­ma di gover­no ; i re furo­no colo­ro che per pri­mi tras­se­ro gli uomi­ni fuo­ri dalle selve per condur­li a una vita civile. Inoltre quante volte nel­la sto­ria abbia­mo vis­to pic­cole cit­tà, gover­nate dal­la mol­ti­tu­dine, pre­ci­pi­tare nel disor­dine delle dis­cor­die e qua­si per­ire, mentre gran­di Sta­ti, gover­na­ti dai re, han­no dura­to a lun­go nel tem­po, sta­bi­li e in pace ? Gio­van­ni Pon­ta­no scrive chia­ra­mente di pic­cole cit­tà tra­va­gliate dalle dis­cor­die, mentre gran­dis­si­mi regni vivo­no tran­quilli e in pace, raf­for­zan­do così il signi­fi­ca­to sto­ri­co del rife­ri­men­to. Se la mol­te­pli­ci­tà dei gover­nan­ti por­ta dis­cor­dia anche dove gli uomi­ni sono pochi, mentre mol­tis­si­mi uomi­ni vivo­no nel­la concor­dia quan­do han­no un re, ciò signi­fi­ca neces­sa­ria­mente che la for­za dell’u­ni­tà di gover­no del sovra­no è gran­dis­si­ma, come per conver­so è gran­dis­si­ma la for­za dirom­pente del­la mol­te­pli­ci­tà dei gover­nan­ti. Insom­ma, qui si nega di fat­to, anche se forse non volu­ta­mente come rife­ri­men­to diret­to, quan­to asse­ri­to poco più di un seco­lo pri­ma da Bar­to­lo da Sas­so­fer­ra­to, per il quale ai gran­di Sta­ti si addice la monar­chia, mentre la demo­cra­zia ben si adat­ta ai pic­co­li e l’a­ris­to­cra­zia ai medi. Qui invece il gover­no plu­ri­mo, aris­to­cra­ti­co o demo­cra­ti­co, non va bene nep­pure per le pic­cole cit­tà, non va bene per nes­su­no. Sol­tan­to nelle monar­chie l’uo­mo può godere contem­po­ra­nea­mente del­la vera liber­tà conforme ai det­ta­mi del­la ragione e del vero ordine del­la vita sociale. D’al­tronde, non ci si illu­da : anche nelle demo­cra­zie e nelle aris­to­cra­zie esiste sempre un qual­cu­no, che in real­tà gover­na per­so­nal­mente anche se for­mal­mente il gover­no è nelle mani del grup­po. Osser­va­zione estre­ma­mente acu­ta, nel­la quale forse pos­sia­mo leg­gere un vela­to rife­ri­men­to a situa­zio­ni ita­liane che il nos­tro ben conos­ce­va, come quel­la di Firenze con Cosi­mo il Vec­chio  ((DO, cc.30r-31r.
)) .
In ques­to contes­to, trat­tan­do del gover­no delle pro­vince del Regno, Gio­van­ni Pon­ta­no fa delle consi­de­ra­zio­ni quan­to mai inter­es­san­ti  ((DO, cc.37v-38r.
)) . I gover­na­to­ri, scrive nel De obe­dien­tia, devo­no soprat­tut­to ris­pet­tare le leg­gi e osser­vare e far osser­vare sempre la gius­ti­zia. E fin qui si trat­ta di un pre­cet­to scon­ta­to e ovvio. Ma Pon­ta­no va ben oltre, per­ché avverte mol­to bene la neces­si­tà di calare nel­la real­tà quo­ti­dia­na i pre­cet­ti di gius­ti­zia, che ci ven­go­no offer­ti dal­la dot­tri­na ; real­tà quo­ti­dia­na che per i gover­nan­ti dei ter­ri­to­ri del regno, così diver­si fra loro, consiste spes­so nel tro­vare un dif­fi­cile equi­li­brio non sol­tan­to fra inter­es­si contras­tan­ti, ma anche fra ordi­na­men­ti giu­ri­di­ci concor­ren­ti, che insis­to­no sul­la stes­sa regione. Un ter­ri­to­rio, come quel­lo del regno di Napo­li, dove legis­la­zione regia, baro­nale, muni­ci­pale, dirit­to roma­no e cano­ni­co, conver­go­no per ren­dere giu­ri­di­ca­mente anco­ra più dif­fi­cile una situa­zione poli­ti­ca­mente e social­mente com­ples­sa.
La ris­pos­ta al pro­ble­ma è chia­ris­si­ma ed inter­es­sante. Nel ren­dere gius­ti­zia gli inca­ri­ca­ti del gover­no delle pro­vince deb­bo­no avere sempre ben pre­sen­ti tre indi­ca­zio­ni : pri­ma di tut­to deb­bo­no rife­rir­si alla volon­tà del sovra­no o del supre­mo magis­tra­to ; in secon­do luo­go deb­bo­no consi­de­rare quan­to è sta­bi­li­to dal dirit­to del regno e dal­la nor­ma­ti­va par­ti­co­lare delle comu­ni­tà ; in ter­zo luo­go deb­bo­no tenere conto del dirit­to comune e del dirit­to impe­riale. In altre parole, conti­nua Pon­ta­no roves­cian­do la dire­zione del dis­cor­so per raf­for­zarne il signi­fi­ca­to, le norme del Regno e le leg­gi cit­ta­dine dovran­no pre­va­lere sul dirit­to civile ; la volon­tà del Re dovrà pre­va­lere su tutte.
Altret­tan­to inter­es­san­ti sono i moti­vi del­la sua pre­sa di posi­zione, sia quel­li espli­ci­ta­mente indi­ca­ti sia quel­li impli­ci­ti, che pos­sia­mo rica­vare dal confron­to fra il tes­to e le condi­zio­ni del regno. La volon­tà del re pre­vale neces­sa­ria­mente sul­la legge sta­tuale e muni­ci­pale e, a mag­gior ragione, sul dirit­to comune e impe­riale. E ciò per moti­vi tan­to spa­zia­li quan­to tem­po­ra­li. Noi dob­bia­mo infat­ti ammi­nis­trare la gius­ti­zia, gover­nare con gius­ti­zia ; ma a chi, a quale ter­ri­to­rio, a quale momen­to dob­bia­mo rife­rire le nostre valu­ta­zio­ni ? Se sia­mo inca­ri­ca­ti di gover­nare una cit­tà, un ter­ri­to­rio, una pro­vin­cia, non potre­mo mai essere sicu­ri che la gius­ti­zia del regno e il bene comune gene­rale coin­ci­da­no con quel­li che a noi local­mente appaio­no come la gius­ti­zia e il bene comune del­la comu­ni­tà a noi affi­da­ta. Il sovra­no al cen­tro del regno ha invece una visione glo­bale di tut­to e di tut­ti ; se noi sia­mo in gra­do di valu­tare il bene comune locale, egli è invece in gra­do di valu­tare quel bene comune più grande, quel bene “più” comune (mi si consen­ta l’es­pres­sione) che è il bene comune del regno. Quin­di le nostre valu­ta­zio­ni deb­bo­no pas­sare in secon­da linea ris­pet­to a quelle del sovra­no, che meglio può valu­tare il qua­dro gene­rale, cor­reg­gen­do le nostre. Inoltre la volon­tà del signore, sovra­no o supre­mo magis­tra­to che sia, ha una fles­si­bi­li­tà, una adat­ta­bi­li­tà alle situa­zio­ni anche contin­gen­ti, che la legge non potrà mai avere. Le norme infat­ti sono “dirit­to scrit­to” mentre “la volon­tà del signore è legge par­lante”, pre­ci­sa Pon­ta­no ren­den­do evi­dente la rigi­di­tà delle norme contro la fles­si­bi­li­tà del­la volon­tà. Pri­ma ave­va affer­ma­to che è bene scri­vere le leg­gi, affin­ché sia­no conos­ciute ed osser­vate ; ma ques­to si paga in rigi­di­tà, la rigi­di­tà del­lo scrit­to contro la fles­si­bi­li­tà e adat­ta­bi­li­tà del­la paro­la. Qui Pon­ta­no adat­ta e modi­fi­ca leg­ger­mente, ma effi­ca­ce­mente, una frase qua­si pro­ver­biale, di ori­gine anti­ca ma anco­ra dif­fu­sa ai suoi tem­pi anche fra i giu­ris­ti : l’af­fer­ma­zione che “il re nel suo regno è legge ani­ma­ta”, legge vivente, più volte ricor­rente per esem­pio nell’o­pe­ra del famo­so giu­ris­ta napo­le­ta­no Mat­teo d’Af­flit­to, che nel De obe­dien­tia diven­ta appun­to “la volon­tà del signore è legge par­lante”, spos­tan­do l’ac­cen­to dal­la fun­zione di legge viva del re, quin­di fun­zione qua­si sol­tan­to inter­pre­ta­ti­va o sup­ple­ti­va, all’e­ser­ci­zio diret­to del­la volon­tà del signore, del re che può coman­dare e coman­da.

La riaf­fer­ma­zione del­la inte­gri­tà del potere reale è indub­bia nel De obe­dien­tia, ma non nasce dal desi­de­rio di avere un re tiran­ni­co, che gover­ni arbi­tra­ria­mente, bensì dal­la spe­ran­za di tro­vare chi pos­sa porre un fre­no alle intem­pe­ranze dei baro­ni, che trop­po spes­so riten­go­no di essere sovra­ni nei feu­di, gover­nan­do­li a pro­pria dis­cre­zione e pre­ten­den­do di pat­teg­giare col re ogni pro­prio com­por­ta­men­to. Se a Firenze la dis­cor­dia civile, pro­ble­ma eter­no, nasce dal­la lot­ta delle fazio­ni, in Napo­li la stes­sa dis­cor­dia nasce dal­la pre­po­ten­za e dal pre­po­tere del baro­na­to. A Firenze Coluc­cio Salu­ta­ti, delu­so ed esaus­to, nei pri­mi anni del seco­lo ave­va invo­ca­to Cesare, mentre Mat­teo Pal­mie­ri negli anni tren­ta ave­va spe­ra­to, come altri, in Cosi­mo il Vec­chio ; a Napo­li, dove esiste una anti­ca tra­di­zione monar­chi­ca e di grande Sta­to, dove esiste una dinas­tia già inse­dia­ta ben­ché recente e dura­mente contes­ta­ta, Gio­van­ni Pon­ta­no si batte per il raf­for­za­men­to dei pote­ri del re. Pur­trop­po man­che­ran­no le condi­zio­ni, affin­ché ques­to raf­for­za­men­to si attui ed abbia effet­to. Ma è in ques­ta pros­pet­ti­va che dob­bia­mo leg­gere l’e­sal­ta­zione pon­ta­nia­na del sovra­no come ver­tice del potere e delle leg­gi.

*   *   *

Chi vuole com­piere il suo dovere obbe­den­do al re sap­pia che suo pri­mo obbli­go è la fedel­tà ; deve essere fide­lis chiunque egli sia, umile popo­la­no o altez­zo­so barone  ((DO, c.32r.
)) . Fedel­tà intel­li­gente, però ; colo­ro che rico­pro­no inca­ri­chi da parte del sovra­no deb­bo­no seguire atten­ta­mente gli ordi­ni scrit­ti o ora­li del re, ma devo­no anche accom­pa­gnare la fedel­tà e l’ob­be­dien­za con la pru­den­za, con la sag­gez­za ope­ra­ti­va, sen­za la quale per­si­no la fedel­tà ris­chia di essere inutile per­ché irra­gio­ne­vole. Così anche nell’ob­be­dire agli ordi­ni occorre ricor­dar­si che il repen­ti­no mutare delle condi­zio­ni può indurre a riflet­tere e a meglio valu­tare la situa­zione, anche a cos­to di ritar­dare l’e­se­cu­zione del coman­do  ((DO, cc.33v, 36r e 38rv.
)) . Anche nel­la più fedele obbe­dien­za dunque c’è un ampio mar­gine di valu­ta­zione per­so­nale, di dis­cre­zio­na­li­tà, che dob­bia­mo usare con ragione e accor­tez­za consi­de­ran­do la situa­zione in tut­ti i suoi ele­men­ti. Il che dimos­tra anco­ra una vol­ta che l’ob­be­dien­za non è cos­ti­tui­ta da mera pas­si­vi­tà ; in fon­do chi obbe­disce per mera pas­si­vi­tà, per puro timore, per obbli­go al quale non ci si può mate­rial­mente sot­trarre, non è nep­pure vera­mente obbe­diente, non eser­ci­ta la virtù dell’ob­be­dien­za, per­ché la virtù esiste nel­la sua inter­ez­za sol­tan­to nel­la liber­tà, una virtù obbli­ga­ta non ha meri­to alcu­no.
Ma soprat­tut­to chi vuole essere fedele e ser­vire il suo sovra­no, sap­pia di dover vivere secon­do il suo volere, per­ché anco­ra una vol­ta dob­bia­mo ricor­dare e consta­tare che il coman­do del re è legge. D’al­tronde ciò che fac­cia­mo per il re, lo fac­cia­mo anche contem­po­ra­nea­mente per la patria, che dopo Dio sta al pri­mo posto dei nos­tri dove­ri e si iden­ti­fi­ca col sovra­no  ((DO, c.32r.
)) .
Il re dunque si mani­fes­ta nuo­va­mente nel­la sua natu­ra di ver­tice comune alle due gerar­chie delle norme e degli uomi­ni. Incar­nan­do inoltre in se stes­so la patria. La sua è una posi­zione par­ti­co­la­ris­si­ma, che deve essere dife­sa con ogni mez­zo ; cosic­ché da un lato Pon­ta­no asse­risce che fon­da­men­to del­la fedel­tà è l’a­more, ma dall’al­tro fa rien­trare tutte le vio­la­zio­ni dell’ob­bli­go di fedel­tà, delle qua­li qui ci pre­sen­ta un lun­go elen­co, nel cri­mine di per­duel­lio, voce di dirit­to roma­no, che com­pren­de­va i delit­ti contro lo Sta­to e contro i gover­nan­ti, delit­ti puni­ti con la pena capi­tale ; quei delit­ti, che in Roma appar­te­ne­va­no al mas­si­mo livel­lo dei cri­mi­na lesae maies­ta­tis, delit­ti contro la maes­tà, contro la sovra­ni­tà del­lo Sta­to direm­mo oggi. Gio­van­ni Pon­ta­no dunque col­lo­ca qual­sia­si vio­la­zione dell’ob­bli­go di fedel­tà al sovra­no sempre nel delit­to più ese­cran­do e da punire con la mas­si­ma durez­za, per­ché “san­to è il nome di re”, come scrive nel De bel­lo Nea­po­li­ta­no pro­prio quan­do rac­con­ta l’attentato pro­di­to­rio e sleale di Mari­no Mar­za­no contro Fer­rante durante la guer­ra di suc­ces­sione  ((Gio­van­ni Pon­ta­no, De bel­lo Nea­po­li­ta­no, in Ope­ra omnia, cit., vol.II, c.261v.
)) . Che poi ques­to non sia sta­to sempre pos­si­bile nel regno di Napo­li e che tal­vol­ta lo stes­so Pon­ta­no pos­sa avere usa­to pru­den­za consi­glian­do al suo re mode­ra­zione nell’a­gire e nel punire, è pro­ba­bile, anzi direi che è cer­to, ma ciò nul­la toglie alla duris­si­ma condan­na for­mu­la­ta da Pon­ta­no, condan­na che è allo stes­so tem­po morale e poli­ti­ca, per­ché il tra­di­men­to, la vio­la­zione del­la fedel­tà dis­trugge la convi­ven­za uma­na, por­tan­do­ci al di fuo­ri del consor­zio degli uomi­ni.
Ovvia­mente quan­do giu­di­chia­mo del delit­to di per­duel­lio dob­bia­mo tenere conto del­la posi­zione sociale del sud­di­to. I sud­di­ti infat­ti non sono tut­ti egua­li, ma si divi­do­no in due cate­go­rie : i sud­di­ti sim­pli­ci­ter e quel­li che pos­sie­do­no terre, cas­tel­li, cit­tà, quel­li cioè che chia­mia­mo baro­ni, conti, duchi, in altre parole i feu­da­ta­ri, che ris­cuo­to­no tri­bu­ti e han­no obbli­ghi mili­ta­ri, dove­ri che van­no ben oltre quan­to deve fare il sud­di­to qual­sia­si. La vio­la­zione del­la fedel­tà da parte di un barone, che ha potere su altri uomi­ni, è ben più grave di quel­la del sud­di­to qual­sia­si, che meno dan­no può soli­ta­mente fare. I baro­ni deb­bo­no avere una sola rego­la : essere fede­li ed ese­guire gli ordi­ni in pace e in guer­ra. Ogni vio­la­zione è per­duel­lio e dovrà essere seve­ra­mente giu­di­ca­ta dal re  ((DO, c.32v.
)) .
Tas­to sempre dolente ques­to del baro­na­to meri­dio­nale, il cui com­por­ta­men­to ris­so­so e infe­dele durante la guer­ra fra Fer­rante e Gio­van­ni d’An­giò ha dato occa­sione e sti­mo­lo alla ste­su­ra del De obe­dien­tia. Non a caso Gio­van­ni Pon­ta­no ripete in modo spe­ci­fi­co per i baro­ni quan­to ha appe­na det­to sul­la fedel­tà nel capi­to­lo pre­ce­dente. In un cer­to sen­so il noc­cio­lo sta pro­prio qui, nell’ap­pel­lo ai baro­ni affin­ché com­pren­da­no che loro dovere pri­mo è l’ob­be­dien­za e che ques­ta è neces­sa­ria al bene comune, per­ché sen­za l’ob­be­dien­za lo Sta­to si fran­tu­ma e tut­ti ne subia­mo dan­no e conse­guenze dram­ma­tiche. Ecco emer­gere anco­ra più chia­ro il sen­so ripos­to di quan­to det­to in rife­ri­men­to alla gius­ti­zia locale, che può non appa­rire più tale se vis­ta nel­la glo­ba­li­tà del regno. Il per­se­guire il pro­prio inter­esse par­ti­co­lare pone in per­ico­lo la più grande convi­ven­za. Occorre invece essere sempre obbe­dien­ti e fede­li, anche nelle avver­si­tà. Pon­ta­no ha qui parole duris­sime contro i baro­ni che non com­pio­no il loro dovere nei confron­ti del re e del regno, argo­men­to che bru­cia e che res­terà scot­tante per tut­ti i decen­ni suc­ces­si­vi, ritor­nan­do anche in altre sue opere.

*   *   *

Il pro­ble­ma dell’in­fe­del­tà e del­la disob­be­dien­za bru­cia anche in seno alle fami­glie, per­si­no alle fami­glie rea­li, nelle qua­li più volte abbia­mo vis­to i figli ribel­lar­si a colui che è contem­po­ra­nea­mente loro padre e loro sovra­no. Pon­ta­no ne scrive espli­ci­ta­mente nel trat­tare dell’ob­be­dien­za nel­la fami­glia : fosse sempre sta­ta stron­ca­ta ai tem­pi nos­tri e dei nos­tri padri la pro­ter­via dei figli, che non voglio­no sop­por­tare l’i­ra dei padri ! Per­si­no i regni sono sta­ti sull’or­lo del­la rovi­na, quan­do ques­ta peste ha infu­ria­to nelle fami­glie rea­li  ((DO, c.17v.
)) . Rife­ri­men­to che viene illu­mi­na­to da quan­to scrive nel De for­ti­tu­dine : “Gio­van­ni Re d’A­ra­go­na qua­si è sta­to cac­cia­to dal tro­no, per l’am­bi­zione del figlio Car­lo”  ((Gio­van­ni Pon­ta­no, De for­ti­tu­dine, in Ope­ra omnia, cit., vol.I, c.81v.
)) .
Il ber­sa­glio è dunque Car­lo di Via­na, sin­go­lare e inter­es­sante per­so­nag­gio, figlio di Gio­van­ni II d’A­ra­go­na e di Bian­ca di Navar­ra, nato il 29 mag­gio 1421. Per moti­vi dinas­ti­ci fra Car­lo, inves­ti­to del prin­ci­pa­to di Via­na, e il padre scop­pia un conflit­to, che ben pres­to si tras­for­ma in guer­ra aper­ta. Scon­fit­to, Car­lo si rifu­gia a Napo­li tro­van­do bene­vo­la acco­glien­za pres­so lo zio Alfon­so il Magna­ni­mo dal mar­zo 1457 al luglio dell’an­no suc­ces­si­vo. Ma la morte del re rende inutile e forse impos­si­bile la per­ma­nen­za a Napo­li, dove il prin­cipe, alme­no secon­do alcune voci, ave­va spe­ra­to di suc­ce­dere sul tro­no allo zio al posto del cugi­no Fer­rante. Illu­sione di bre­vis­si­ma dura­ta. Car­lo di Via­na deve las­ciare Napo­li per tor­nar­sene in Cata­lo­gna, dove muore il 23 set­tembre 1461, mentre scop­pia nuo­va­mente la guer­ra civile.
L’a­ma­ra rifles­sione di Pon­ta­no ci aiu­ta a com­pren­dere come l’am­biente napo­le­ta­no ave­va vis­su­to e come ricor­da­va la vicen­da del prin­cipe di Via­na ; ma soprat­tut­to ci indi­ca anco­ra una vol­ta come l’in­cu­bo delle dis­cor­die cos­ti­tuis­ca uno dei prin­ci­pa­li fili condut­to­ri del pen­sie­ro poli­ti­co dell’u­ma­ne­si­mo ita­lia­no.
Radi­cal­mente oppos­to invece il com­por­ta­men­to di Fer­rante nei confron­ti di suo padre Alfon­so. Fer­rante, ricor­da Pon­ta­no, era così atten­to nel­la sua obbe­dien­za al padre da anti­ci­parne lie­ta­mente tutte le richieste. Ed anche Dio­mede Cara­fa, altro grande pro­ta­go­nis­ta del­la vita poli­ti­ca e mili­tare del­la Napo­li di allo­ra, per rac­co­man­dare l’ob­be­dien­za filiale pro­prio ad Alfon­so di Cala­bria in un suo Memo­riale indi­riz­za­to al prin­cipe uti­liz­za appun­to l’e­sem­pio di Fer­rante. Ques­ti, ben­ché inves­ti­to di auto­ri­tà amplis­si­ma, non la ha mai usa­ta se non ese­guen­do atten­ta­mente gli ordi­ni e i desi­de­ri di Alfon­so il Magna­ni­mo. Così dovrà fare anche Alfon­so di Cala­bria, ben­ché anch’e­gli abbia nelle sue mani una “asso­lu­ta potes­tà di far ciò che le piace”  ((Dio­mede Cara­fa, Memo­riale scrit­to ad Alfon­so d’A­ra­go­na duca di Cala­bria pri­mo­ge­ni­to del Re Fer­di­nan­do per lo viag­gio del­la Mar­ca d’An­co­na, in Memo­ria­li, a cura di Fran­ca Petruc­ci Nar­del­li, Roma 1988, p.53.
)) . Il dovere di obbe­dien­za in ques­to caso sia per Pon­ta­no sia per Cara­fa viene pri­ma del potere dato dal padre al prin­cipe. La dis­cor­dia è sempre in aggua­to, come mos­tra­no anche le vicende del regno lon­tane e recen­ti, e deve essere evi­ta­ta in tut­ti i modi.