Revue de réflexion politique et religieuse.

Il “Gran” Pon­ta­no pen­sa­tore dell’ordine poli­ti­co

Article publié le 28 Nov 2009 | imprimer imprimer  | Version PDF | Partager :  Partager sur Facebook Partager sur Linkedin Partager sur Google+

Altret­tan­to inter­es­san­ti sono i moti­vi del­la sua pre­sa di posi­zione, sia quel­li espli­ci­ta­mente indi­ca­ti sia quel­li impli­ci­ti, che pos­sia­mo rica­vare dal confron­to fra il tes­to e le condi­zio­ni del regno. La volon­tà del re pre­vale neces­sa­ria­mente sul­la legge sta­tuale e muni­ci­pale e, a mag­gior ragione, sul dirit­to comune e impe­riale. E ciò per moti­vi tan­to spa­zia­li quan­to tem­po­ra­li. Noi dob­bia­mo infat­ti ammi­nis­trare la gius­ti­zia, gover­nare con gius­ti­zia ; ma a chi, a quale ter­ri­to­rio, a quale momen­to dob­bia­mo rife­rire le nostre valu­ta­zio­ni ? Se sia­mo inca­ri­ca­ti di gover­nare una cit­tà, un ter­ri­to­rio, una pro­vin­cia, non potre­mo mai essere sicu­ri che la gius­ti­zia del regno e il bene comune gene­rale coin­ci­da­no con quel­li che a noi local­mente appaio­no come la gius­ti­zia e il bene comune del­la comu­ni­tà a noi affi­da­ta. Il sovra­no al cen­tro del regno ha invece una visione glo­bale di tut­to e di tut­ti ; se noi sia­mo in gra­do di valu­tare il bene comune locale, egli è invece in gra­do di valu­tare quel bene comune più grande, quel bene “più” comune (mi si consen­ta l’es­pres­sione) che è il bene comune del regno. Quin­di le nostre valu­ta­zio­ni deb­bo­no pas­sare in secon­da linea ris­pet­to a quelle del sovra­no, che meglio può valu­tare il qua­dro gene­rale, cor­reg­gen­do le nostre. Inoltre la volon­tà del signore, sovra­no o supre­mo magis­tra­to che sia, ha una fles­si­bi­li­tà, una adat­ta­bi­li­tà alle situa­zio­ni anche contin­gen­ti, che la legge non potrà mai avere. Le norme infat­ti sono “dirit­to scrit­to” mentre “la volon­tà del signore è legge par­lante”, pre­ci­sa Pon­ta­no ren­den­do evi­dente la rigi­di­tà delle norme contro la fles­si­bi­li­tà del­la volon­tà. Pri­ma ave­va affer­ma­to che è bene scri­vere le leg­gi, affin­ché sia­no conos­ciute ed osser­vate ; ma ques­to si paga in rigi­di­tà, la rigi­di­tà del­lo scrit­to contro la fles­si­bi­li­tà e adat­ta­bi­li­tà del­la paro­la. Qui Pon­ta­no adat­ta e modi­fi­ca leg­ger­mente, ma effi­ca­ce­mente, una frase qua­si pro­ver­biale, di ori­gine anti­ca ma anco­ra dif­fu­sa ai suoi tem­pi anche fra i giu­ris­ti : l’af­fer­ma­zione che “il re nel suo regno è legge ani­ma­ta”, legge vivente, più volte ricor­rente per esem­pio nell’o­pe­ra del famo­so giu­ris­ta napo­le­ta­no Mat­teo d’Af­flit­to, che nel De obe­dien­tia diven­ta appun­to “la volon­tà del signore è legge par­lante”, spos­tan­do l’ac­cen­to dal­la fun­zione di legge viva del re, quin­di fun­zione qua­si sol­tan­to inter­pre­ta­ti­va o sup­ple­ti­va, all’e­ser­ci­zio diret­to del­la volon­tà del signore, del re che può coman­dare e coman­da.

La riaf­fer­ma­zione del­la inte­gri­tà del potere reale è indub­bia nel De obe­dien­tia, ma non nasce dal desi­de­rio di avere un re tiran­ni­co, che gover­ni arbi­tra­ria­mente, bensì dal­la spe­ran­za di tro­vare chi pos­sa porre un fre­no alle intem­pe­ranze dei baro­ni, che trop­po spes­so riten­go­no di essere sovra­ni nei feu­di, gover­nan­do­li a pro­pria dis­cre­zione e pre­ten­den­do di pat­teg­giare col re ogni pro­prio com­por­ta­men­to. Se a Firenze la dis­cor­dia civile, pro­ble­ma eter­no, nasce dal­la lot­ta delle fazio­ni, in Napo­li la stes­sa dis­cor­dia nasce dal­la pre­po­ten­za e dal pre­po­tere del baro­na­to. A Firenze Coluc­cio Salu­ta­ti, delu­so ed esaus­to, nei pri­mi anni del seco­lo ave­va invo­ca­to Cesare, mentre Mat­teo Pal­mie­ri negli anni tren­ta ave­va spe­ra­to, come altri, in Cosi­mo il Vec­chio ; a Napo­li, dove esiste una anti­ca tra­di­zione monar­chi­ca e di grande Sta­to, dove esiste una dinas­tia già inse­dia­ta ben­ché recente e dura­mente contes­ta­ta, Gio­van­ni Pon­ta­no si batte per il raf­for­za­men­to dei pote­ri del re. Pur­trop­po man­che­ran­no le condi­zio­ni, affin­ché ques­to raf­for­za­men­to si attui ed abbia effet­to. Ma è in ques­ta pros­pet­ti­va che dob­bia­mo leg­gere l’e­sal­ta­zione pon­ta­nia­na del sovra­no come ver­tice del potere e delle leg­gi.

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Chi vuole com­piere il suo dovere obbe­den­do al re sap­pia che suo pri­mo obbli­go è la fedel­tà ; deve essere fide­lis chiunque egli sia, umile popo­la­no o altez­zo­so barone  ((DO, c.32r.
)) . Fedel­tà intel­li­gente, però ; colo­ro che rico­pro­no inca­ri­chi da parte del sovra­no deb­bo­no seguire atten­ta­mente gli ordi­ni scrit­ti o ora­li del re, ma devo­no anche accom­pa­gnare la fedel­tà e l’ob­be­dien­za con la pru­den­za, con la sag­gez­za ope­ra­ti­va, sen­za la quale per­si­no la fedel­tà ris­chia di essere inutile per­ché irra­gio­ne­vole. Così anche nell’ob­be­dire agli ordi­ni occorre ricor­dar­si che il repen­ti­no mutare delle condi­zio­ni può indurre a riflet­tere e a meglio valu­tare la situa­zione, anche a cos­to di ritar­dare l’e­se­cu­zione del coman­do  ((DO, cc.33v, 36r e 38rv.
)) . Anche nel­la più fedele obbe­dien­za dunque c’è un ampio mar­gine di valu­ta­zione per­so­nale, di dis­cre­zio­na­li­tà, che dob­bia­mo usare con ragione e accor­tez­za consi­de­ran­do la situa­zione in tut­ti i suoi ele­men­ti. Il che dimos­tra anco­ra una vol­ta che l’ob­be­dien­za non è cos­ti­tui­ta da mera pas­si­vi­tà ; in fon­do chi obbe­disce per mera pas­si­vi­tà, per puro timore, per obbli­go al quale non ci si può mate­rial­mente sot­trarre, non è nep­pure vera­mente obbe­diente, non eser­ci­ta la virtù dell’ob­be­dien­za, per­ché la virtù esiste nel­la sua inter­ez­za sol­tan­to nel­la liber­tà, una virtù obbli­ga­ta non ha meri­to alcu­no.
Ma soprat­tut­to chi vuole essere fedele e ser­vire il suo sovra­no, sap­pia di dover vivere secon­do il suo volere, per­ché anco­ra una vol­ta dob­bia­mo ricor­dare e consta­tare che il coman­do del re è legge. D’al­tronde ciò che fac­cia­mo per il re, lo fac­cia­mo anche contem­po­ra­nea­mente per la patria, che dopo Dio sta al pri­mo posto dei nos­tri dove­ri e si iden­ti­fi­ca col sovra­no  ((DO, c.32r.
)) .
Il re dunque si mani­fes­ta nuo­va­mente nel­la sua natu­ra di ver­tice comune alle due gerar­chie delle norme e degli uomi­ni. Incar­nan­do inoltre in se stes­so la patria. La sua è una posi­zione par­ti­co­la­ris­si­ma, che deve essere dife­sa con ogni mez­zo ; cosic­ché da un lato Pon­ta­no asse­risce che fon­da­men­to del­la fedel­tà è l’a­more, ma dall’al­tro fa rien­trare tutte le vio­la­zio­ni dell’ob­bli­go di fedel­tà, delle qua­li qui ci pre­sen­ta un lun­go elen­co, nel cri­mine di per­duel­lio, voce di dirit­to roma­no, che com­pren­de­va i delit­ti contro lo Sta­to e contro i gover­nan­ti, delit­ti puni­ti con la pena capi­tale ; quei delit­ti, che in Roma appar­te­ne­va­no al mas­si­mo livel­lo dei cri­mi­na lesae maies­ta­tis, delit­ti contro la maes­tà, contro la sovra­ni­tà del­lo Sta­to direm­mo oggi. Gio­van­ni Pon­ta­no dunque col­lo­ca qual­sia­si vio­la­zione dell’ob­bli­go di fedel­tà al sovra­no sempre nel delit­to più ese­cran­do e da punire con la mas­si­ma durez­za, per­ché “san­to è il nome di re”, come scrive nel De bel­lo Nea­po­li­ta­no pro­prio quan­do rac­con­ta l’attentato pro­di­to­rio e sleale di Mari­no Mar­za­no contro Fer­rante durante la guer­ra di suc­ces­sione  ((Gio­van­ni Pon­ta­no, De bel­lo Nea­po­li­ta­no, in Ope­ra omnia, cit., vol.II, c.261v.
)) . Che poi ques­to non sia sta­to sempre pos­si­bile nel regno di Napo­li e che tal­vol­ta lo stes­so Pon­ta­no pos­sa avere usa­to pru­den­za consi­glian­do al suo re mode­ra­zione nell’a­gire e nel punire, è pro­ba­bile, anzi direi che è cer­to, ma ciò nul­la toglie alla duris­si­ma condan­na for­mu­la­ta da Pon­ta­no, condan­na che è allo stes­so tem­po morale e poli­ti­ca, per­ché il tra­di­men­to, la vio­la­zione del­la fedel­tà dis­trugge la convi­ven­za uma­na, por­tan­do­ci al di fuo­ri del consor­zio degli uomi­ni.
Ovvia­mente quan­do giu­di­chia­mo del delit­to di per­duel­lio dob­bia­mo tenere conto del­la posi­zione sociale del sud­di­to. I sud­di­ti infat­ti non sono tut­ti egua­li, ma si divi­do­no in due cate­go­rie : i sud­di­ti sim­pli­ci­ter e quel­li che pos­sie­do­no terre, cas­tel­li, cit­tà, quel­li cioè che chia­mia­mo baro­ni, conti, duchi, in altre parole i feu­da­ta­ri, che ris­cuo­to­no tri­bu­ti e han­no obbli­ghi mili­ta­ri, dove­ri che van­no ben oltre quan­to deve fare il sud­di­to qual­sia­si. La vio­la­zione del­la fedel­tà da parte di un barone, che ha potere su altri uomi­ni, è ben più grave di quel­la del sud­di­to qual­sia­si, che meno dan­no può soli­ta­mente fare. I baro­ni deb­bo­no avere una sola rego­la : essere fede­li ed ese­guire gli ordi­ni in pace e in guer­ra. Ogni vio­la­zione è per­duel­lio e dovrà essere seve­ra­mente giu­di­ca­ta dal re  ((DO, c.32v.
)) .
Tas­to sempre dolente ques­to del baro­na­to meri­dio­nale, il cui com­por­ta­men­to ris­so­so e infe­dele durante la guer­ra fra Fer­rante e Gio­van­ni d’An­giò ha dato occa­sione e sti­mo­lo alla ste­su­ra del De obe­dien­tia. Non a caso Gio­van­ni Pon­ta­no ripete in modo spe­ci­fi­co per i baro­ni quan­to ha appe­na det­to sul­la fedel­tà nel capi­to­lo pre­ce­dente. In un cer­to sen­so il noc­cio­lo sta pro­prio qui, nell’ap­pel­lo ai baro­ni affin­ché com­pren­da­no che loro dovere pri­mo è l’ob­be­dien­za e che ques­ta è neces­sa­ria al bene comune, per­ché sen­za l’ob­be­dien­za lo Sta­to si fran­tu­ma e tut­ti ne subia­mo dan­no e conse­guenze dram­ma­tiche. Ecco emer­gere anco­ra più chia­ro il sen­so ripos­to di quan­to det­to in rife­ri­men­to alla gius­ti­zia locale, che può non appa­rire più tale se vis­ta nel­la glo­ba­li­tà del regno. Il per­se­guire il pro­prio inter­esse par­ti­co­lare pone in per­ico­lo la più grande convi­ven­za. Occorre invece essere sempre obbe­dien­ti e fede­li, anche nelle avver­si­tà. Pon­ta­no ha qui parole duris­sime contro i baro­ni che non com­pio­no il loro dovere nei confron­ti del re e del regno, argo­men­to che bru­cia e che res­terà scot­tante per tut­ti i decen­ni suc­ces­si­vi, ritor­nan­do anche in altre sue opere.

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Il pro­ble­ma dell’in­fe­del­tà e del­la disob­be­dien­za bru­cia anche in seno alle fami­glie, per­si­no alle fami­glie rea­li, nelle qua­li più volte abbia­mo vis­to i figli ribel­lar­si a colui che è contem­po­ra­nea­mente loro padre e loro sovra­no. Pon­ta­no ne scrive espli­ci­ta­mente nel trat­tare dell’ob­be­dien­za nel­la fami­glia : fosse sempre sta­ta stron­ca­ta ai tem­pi nos­tri e dei nos­tri padri la pro­ter­via dei figli, che non voglio­no sop­por­tare l’i­ra dei padri ! Per­si­no i regni sono sta­ti sull’or­lo del­la rovi­na, quan­do ques­ta peste ha infu­ria­to nelle fami­glie rea­li  ((DO, c.17v.
)) . Rife­ri­men­to che viene illu­mi­na­to da quan­to scrive nel De for­ti­tu­dine : “Gio­van­ni Re d’A­ra­go­na qua­si è sta­to cac­cia­to dal tro­no, per l’am­bi­zione del figlio Car­lo”  ((Gio­van­ni Pon­ta­no, De for­ti­tu­dine, in Ope­ra omnia, cit., vol.I, c.81v.
)) .
Il ber­sa­glio è dunque Car­lo di Via­na, sin­go­lare e inter­es­sante per­so­nag­gio, figlio di Gio­van­ni II d’A­ra­go­na e di Bian­ca di Navar­ra, nato il 29 mag­gio 1421. Per moti­vi dinas­ti­ci fra Car­lo, inves­ti­to del prin­ci­pa­to di Via­na, e il padre scop­pia un conflit­to, che ben pres­to si tras­for­ma in guer­ra aper­ta. Scon­fit­to, Car­lo si rifu­gia a Napo­li tro­van­do bene­vo­la acco­glien­za pres­so lo zio Alfon­so il Magna­ni­mo dal mar­zo 1457 al luglio dell’an­no suc­ces­si­vo. Ma la morte del re rende inutile e forse impos­si­bile la per­ma­nen­za a Napo­li, dove il prin­cipe, alme­no secon­do alcune voci, ave­va spe­ra­to di suc­ce­dere sul tro­no allo zio al posto del cugi­no Fer­rante. Illu­sione di bre­vis­si­ma dura­ta. Car­lo di Via­na deve las­ciare Napo­li per tor­nar­sene in Cata­lo­gna, dove muore il 23 set­tembre 1461, mentre scop­pia nuo­va­mente la guer­ra civile.
L’a­ma­ra rifles­sione di Pon­ta­no ci aiu­ta a com­pren­dere come l’am­biente napo­le­ta­no ave­va vis­su­to e come ricor­da­va la vicen­da del prin­cipe di Via­na ; ma soprat­tut­to ci indi­ca anco­ra una vol­ta come l’in­cu­bo delle dis­cor­die cos­ti­tuis­ca uno dei prin­ci­pa­li fili condut­to­ri del pen­sie­ro poli­ti­co dell’u­ma­ne­si­mo ita­lia­no.
Radi­cal­mente oppos­to invece il com­por­ta­men­to di Fer­rante nei confron­ti di suo padre Alfon­so. Fer­rante, ricor­da Pon­ta­no, era così atten­to nel­la sua obbe­dien­za al padre da anti­ci­parne lie­ta­mente tutte le richieste. Ed anche Dio­mede Cara­fa, altro grande pro­ta­go­nis­ta del­la vita poli­ti­ca e mili­tare del­la Napo­li di allo­ra, per rac­co­man­dare l’ob­be­dien­za filiale pro­prio ad Alfon­so di Cala­bria in un suo Memo­riale indi­riz­za­to al prin­cipe uti­liz­za appun­to l’e­sem­pio di Fer­rante. Ques­ti, ben­ché inves­ti­to di auto­ri­tà amplis­si­ma, non la ha mai usa­ta se non ese­guen­do atten­ta­mente gli ordi­ni e i desi­de­ri di Alfon­so il Magna­ni­mo. Così dovrà fare anche Alfon­so di Cala­bria, ben­ché anch’e­gli abbia nelle sue mani una “asso­lu­ta potes­tà di far ciò che le piace”  ((Dio­mede Cara­fa, Memo­riale scrit­to ad Alfon­so d’A­ra­go­na duca di Cala­bria pri­mo­ge­ni­to del Re Fer­di­nan­do per lo viag­gio del­la Mar­ca d’An­co­na, in Memo­ria­li, a cura di Fran­ca Petruc­ci Nar­del­li, Roma 1988, p.53.
)) . Il dovere di obbe­dien­za in ques­to caso sia per Pon­ta­no sia per Cara­fa viene pri­ma del potere dato dal padre al prin­cipe. La dis­cor­dia è sempre in aggua­to, come mos­tra­no anche le vicende del regno lon­tane e recen­ti, e deve essere evi­ta­ta in tut­ti i modi.

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