Il “Gran” Pontano pensatore dell’ordine politico
Altrettanto interessanti sono i motivi della sua presa di posizione, sia quelli esplicitamente indicati sia quelli impliciti, che possiamo ricavare dal confronto fra il testo e le condizioni del regno. La volontà del re prevale necessariamente sulla legge statuale e municipale e, a maggior ragione, sul diritto comune e imperiale. E ciò per motivi tanto spaziali quanto temporali. Noi dobbiamo infatti amministrare la giustizia, governare con giustizia ; ma a chi, a quale territorio, a quale momento dobbiamo riferire le nostre valutazioni ? Se siamo incaricati di governare una città, un territorio, una provincia, non potremo mai essere sicuri che la giustizia del regno e il bene comune generale coincidano con quelli che a noi localmente appaiono come la giustizia e il bene comune della comunità a noi affidata. Il sovrano al centro del regno ha invece una visione globale di tutto e di tutti ; se noi siamo in grado di valutare il bene comune locale, egli è invece in grado di valutare quel bene comune più grande, quel bene “più” comune (mi si consenta l’espressione) che è il bene comune del regno. Quindi le nostre valutazioni debbono passare in seconda linea rispetto a quelle del sovrano, che meglio può valutare il quadro generale, correggendo le nostre. Inoltre la volontà del signore, sovrano o supremo magistrato che sia, ha una flessibilità, una adattabilità alle situazioni anche contingenti, che la legge non potrà mai avere. Le norme infatti sono “diritto scritto” mentre “la volontà del signore è legge parlante”, precisa Pontano rendendo evidente la rigidità delle norme contro la flessibilità della volontà. Prima aveva affermato che è bene scrivere le leggi, affinché siano conosciute ed osservate ; ma questo si paga in rigidità, la rigidità dello scritto contro la flessibilità e adattabilità della parola. Qui Pontano adatta e modifica leggermente, ma efficacemente, una frase quasi proverbiale, di origine antica ma ancora diffusa ai suoi tempi anche fra i giuristi : l’affermazione che “il re nel suo regno è legge animata”, legge vivente, più volte ricorrente per esempio nell’opera del famoso giurista napoletano Matteo d’Afflitto, che nel De obedientia diventa appunto “la volontà del signore è legge parlante”, spostando l’accento dalla funzione di legge viva del re, quindi funzione quasi soltanto interpretativa o suppletiva, all’esercizio diretto della volontà del signore, del re che può comandare e comanda.
La riaffermazione della integrità del potere reale è indubbia nel De obedientia, ma non nasce dal desiderio di avere un re tirannico, che governi arbitrariamente, bensì dalla speranza di trovare chi possa porre un freno alle intemperanze dei baroni, che troppo spesso ritengono di essere sovrani nei feudi, governandoli a propria discrezione e pretendendo di patteggiare col re ogni proprio comportamento. Se a Firenze la discordia civile, problema eterno, nasce dalla lotta delle fazioni, in Napoli la stessa discordia nasce dalla prepotenza e dal prepotere del baronato. A Firenze Coluccio Salutati, deluso ed esausto, nei primi anni del secolo aveva invocato Cesare, mentre Matteo Palmieri negli anni trenta aveva sperato, come altri, in Cosimo il Vecchio ; a Napoli, dove esiste una antica tradizione monarchica e di grande Stato, dove esiste una dinastia già insediata benché recente e duramente contestata, Giovanni Pontano si batte per il rafforzamento dei poteri del re. Purtroppo mancheranno le condizioni, affinché questo rafforzamento si attui ed abbia effetto. Ma è in questa prospettiva che dobbiamo leggere l’esaltazione pontaniana del sovrano come vertice del potere e delle leggi.
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Chi vuole compiere il suo dovere obbedendo al re sappia che suo primo obbligo è la fedeltà ; deve essere fidelis chiunque egli sia, umile popolano o altezzoso barone ((DO, c.32r.
)) . Fedeltà intelligente, però ; coloro che ricoprono incarichi da parte del sovrano debbono seguire attentamente gli ordini scritti o orali del re, ma devono anche accompagnare la fedeltà e l’obbedienza con la prudenza, con la saggezza operativa, senza la quale persino la fedeltà rischia di essere inutile perché irragionevole. Così anche nell’obbedire agli ordini occorre ricordarsi che il repentino mutare delle condizioni può indurre a riflettere e a meglio valutare la situazione, anche a costo di ritardare l’esecuzione del comando ((DO, cc.33v, 36r e 38rv.
)) . Anche nella più fedele obbedienza dunque c’è un ampio margine di valutazione personale, di discrezionalità, che dobbiamo usare con ragione e accortezza considerando la situazione in tutti i suoi elementi. Il che dimostra ancora una volta che l’obbedienza non è costituita da mera passività ; in fondo chi obbedisce per mera passività, per puro timore, per obbligo al quale non ci si può materialmente sottrarre, non è neppure veramente obbediente, non esercita la virtù dell’obbedienza, perché la virtù esiste nella sua interezza soltanto nella libertà, una virtù obbligata non ha merito alcuno.
Ma soprattutto chi vuole essere fedele e servire il suo sovrano, sappia di dover vivere secondo il suo volere, perché ancora una volta dobbiamo ricordare e constatare che il comando del re è legge. D’altronde ciò che facciamo per il re, lo facciamo anche contemporaneamente per la patria, che dopo Dio sta al primo posto dei nostri doveri e si identifica col sovrano ((DO, c.32r.
)) .
Il re dunque si manifesta nuovamente nella sua natura di vertice comune alle due gerarchie delle norme e degli uomini. Incarnando inoltre in se stesso la patria. La sua è una posizione particolarissima, che deve essere difesa con ogni mezzo ; cosicché da un lato Pontano asserisce che fondamento della fedeltà è l’amore, ma dall’altro fa rientrare tutte le violazioni dell’obbligo di fedeltà, delle quali qui ci presenta un lungo elenco, nel crimine di perduellio, voce di diritto romano, che comprendeva i delitti contro lo Stato e contro i governanti, delitti puniti con la pena capitale ; quei delitti, che in Roma appartenevano al massimo livello dei crimina lesae maiestatis, delitti contro la maestà, contro la sovranità dello Stato diremmo oggi. Giovanni Pontano dunque colloca qualsiasi violazione dell’obbligo di fedeltà al sovrano sempre nel delitto più esecrando e da punire con la massima durezza, perché “santo è il nome di re”, come scrive nel De bello Neapolitano proprio quando racconta l’attentato proditorio e sleale di Marino Marzano contro Ferrante durante la guerra di successione ((Giovanni Pontano, De bello Neapolitano, in Opera omnia, cit., vol.II, c.261v.
)) . Che poi questo non sia stato sempre possibile nel regno di Napoli e che talvolta lo stesso Pontano possa avere usato prudenza consigliando al suo re moderazione nell’agire e nel punire, è probabile, anzi direi che è certo, ma ciò nulla toglie alla durissima condanna formulata da Pontano, condanna che è allo stesso tempo morale e politica, perché il tradimento, la violazione della fedeltà distrugge la convivenza umana, portandoci al di fuori del consorzio degli uomini.
Ovviamente quando giudichiamo del delitto di perduellio dobbiamo tenere conto della posizione sociale del suddito. I sudditi infatti non sono tutti eguali, ma si dividono in due categorie : i sudditi simpliciter e quelli che possiedono terre, castelli, città, quelli cioè che chiamiamo baroni, conti, duchi, in altre parole i feudatari, che riscuotono tributi e hanno obblighi militari, doveri che vanno ben oltre quanto deve fare il suddito qualsiasi. La violazione della fedeltà da parte di un barone, che ha potere su altri uomini, è ben più grave di quella del suddito qualsiasi, che meno danno può solitamente fare. I baroni debbono avere una sola regola : essere fedeli ed eseguire gli ordini in pace e in guerra. Ogni violazione è perduellio e dovrà essere severamente giudicata dal re ((DO, c.32v.
)) .
Tasto sempre dolente questo del baronato meridionale, il cui comportamento rissoso e infedele durante la guerra fra Ferrante e Giovanni d’Angiò ha dato occasione e stimolo alla stesura del De obedientia. Non a caso Giovanni Pontano ripete in modo specifico per i baroni quanto ha appena detto sulla fedeltà nel capitolo precedente. In un certo senso il nocciolo sta proprio qui, nell’appello ai baroni affinché comprendano che loro dovere primo è l’obbedienza e che questa è necessaria al bene comune, perché senza l’obbedienza lo Stato si frantuma e tutti ne subiamo danno e conseguenze drammatiche. Ecco emergere ancora più chiaro il senso riposto di quanto detto in riferimento alla giustizia locale, che può non apparire più tale se vista nella globalità del regno. Il perseguire il proprio interesse particolare pone in pericolo la più grande convivenza. Occorre invece essere sempre obbedienti e fedeli, anche nelle avversità. Pontano ha qui parole durissime contro i baroni che non compiono il loro dovere nei confronti del re e del regno, argomento che brucia e che resterà scottante per tutti i decenni successivi, ritornando anche in altre sue opere.
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Il problema dell’infedeltà e della disobbedienza brucia anche in seno alle famiglie, persino alle famiglie reali, nelle quali più volte abbiamo visto i figli ribellarsi a colui che è contemporaneamente loro padre e loro sovrano. Pontano ne scrive esplicitamente nel trattare dell’obbedienza nella famiglia : fosse sempre stata stroncata ai tempi nostri e dei nostri padri la protervia dei figli, che non vogliono sopportare l’ira dei padri ! Persino i regni sono stati sull’orlo della rovina, quando questa peste ha infuriato nelle famiglie reali ((DO, c.17v.
)) . Riferimento che viene illuminato da quanto scrive nel De fortitudine : “Giovanni Re d’Aragona quasi è stato cacciato dal trono, per l’ambizione del figlio Carlo” ((Giovanni Pontano, De fortitudine, in Opera omnia, cit., vol.I, c.81v.
)) .
Il bersaglio è dunque Carlo di Viana, singolare e interessante personaggio, figlio di Giovanni II d’Aragona e di Bianca di Navarra, nato il 29 maggio 1421. Per motivi dinastici fra Carlo, investito del principato di Viana, e il padre scoppia un conflitto, che ben presto si trasforma in guerra aperta. Sconfitto, Carlo si rifugia a Napoli trovando benevola accoglienza presso lo zio Alfonso il Magnanimo dal marzo 1457 al luglio dell’anno successivo. Ma la morte del re rende inutile e forse impossibile la permanenza a Napoli, dove il principe, almeno secondo alcune voci, aveva sperato di succedere sul trono allo zio al posto del cugino Ferrante. Illusione di brevissima durata. Carlo di Viana deve lasciare Napoli per tornarsene in Catalogna, dove muore il 23 settembre 1461, mentre scoppia nuovamente la guerra civile.
L’amara riflessione di Pontano ci aiuta a comprendere come l’ambiente napoletano aveva vissuto e come ricordava la vicenda del principe di Viana ; ma soprattutto ci indica ancora una volta come l’incubo delle discordie costituisca uno dei principali fili conduttori del pensiero politico dell’umanesimo italiano.
Radicalmente opposto invece il comportamento di Ferrante nei confronti di suo padre Alfonso. Ferrante, ricorda Pontano, era così attento nella sua obbedienza al padre da anticiparne lietamente tutte le richieste. Ed anche Diomede Carafa, altro grande protagonista della vita politica e militare della Napoli di allora, per raccomandare l’obbedienza filiale proprio ad Alfonso di Calabria in un suo Memoriale indirizzato al principe utilizza appunto l’esempio di Ferrante. Questi, benché investito di autorità amplissima, non la ha mai usata se non eseguendo attentamente gli ordini e i desideri di Alfonso il Magnanimo. Così dovrà fare anche Alfonso di Calabria, benché anch’egli abbia nelle sue mani una “assoluta potestà di far ciò che le piace” ((Diomede Carafa, Memoriale scritto ad Alfonso d’Aragona duca di Calabria primogenito del Re Ferdinando per lo viaggio della Marca d’Ancona, in Memoriali, a cura di Franca Petrucci Nardelli, Roma 1988, p.53.
)) . Il dovere di obbedienza in questo caso sia per Pontano sia per Carafa viene prima del potere dato dal padre al principe. La discordia è sempre in agguato, come mostrano anche le vicende del regno lontane e recenti, e deve essere evitata in tutti i modi.