Revue de réflexion politique et religieuse.

Il “Gran” Pon­ta­no pen­sa­tore dell’ordine poli­ti­co

Article publié le 28 Nov 2009 | imprimer imprimer  | Version PDF | Partager :  Partager sur Facebook Partager sur Linkedin Partager sur Google+

[Gen­naio 2005]

Quan­do nel 1458 muore Alfon­so il Magna­ni­mo, pri­mo re ara­go­nese di Napo­li, il suc­ces­sore, il figlio Fer­rante, deve com­bat­tere una duris­si­ma guer­ra di suc­ces­sione, che si conclu­derà con la sua vit­to­ria sol­tan­to nel 1464. Ha contro il papa e gli Angioi­ni, pre­ten­den­ti al tro­no di Napo­li, ma il pro­ble­ma poli­ti­ca­mente e sto­ri­ca­mente più grave è nel ceto dei baro­ni, i nobi­li del Regno. Uomi­ni valo­ro­si in guer­ra e abi­li poli­ti­ca­mente, ma gui­da­ti più dagli inter­es­si per­so­na­li e fami­lia­ri che dall’i­dea del bene comune del Regno, gelo­si delle loro auto­no­mie, ris­so­si, pron­ti al conflit­to, capa­ci di cam­biare cam­po più volte nel­la loro vita. Non sono tut­ti così (è ovvio) ma mol­ti fra di loro lo sono, cosic­ché ques­ta è da sempre la debo­lez­za pri­ma e prin­ci­pale del Regno.
Tes­ti­mone atten­to di ques­ta guer­ra è un gio­vane pro­ve­niente dall’Um­bria, che a Napo­li sta per­cor­ren­do una lumi­no­sa car­rie­ra, fino a diven­tare pri­mo minis­tro di Fer­rante nel 1485. È Gio­van­ni Pon­ta­no, nato nel 1429 a Cer­re­to di Spo­le­to in Val­ne­ri­na, che gio­va­nis­si­mo ha avu­to l’ar­dire di pre­sen­tar­si ad Alfon­so il Magna­ni­mo, che guer­reg­gia­va in Tos­ca­na, chie­den­do di essere pre­so al suo ser­vi­zio. Alfon­so, otti­mo conos­ci­tore di uomi­ni, ave­va capi­to il valore di ques­to gio­vane pro­vin­ciale e lo ave­va por­ta­to a Napo­li. Uomo ver­sa­tile e polie­dri­co, alla car­rie­ra poli­ti­ca e diplo­ma­ti­ca Pon­ta­no affian­ca un grande talen­to poe­ti­co (per mol­ti è il più grande poe­ta lati­no dopo l’an­ti­chi­tà) e una inten­sa atti­vi­tà di scrit­tore di dia­lo­ghi sati­ri­ci e di opere di sto­ria, eti­ca e poli­ti­ca. Ver­so la fine del­la sua vita la sua fama è tale che è uni­ver­sal­mente chia­ma­to “il gran Pon­ta­no”. Morirà a Napo­li nel 1503  ((Per quan­to riguar­da il pen­sie­ro poli­ti­co di Gio­van­ni Pon­ta­no mi per­met­to di rin­viare a Clau­dio Fin­zi, Re, baro­ni, popo­lo. La poli­ti­ca di Gio­van­ni Pon­ta­no, Il Cer­chio, Rimi­ni 2004.
)) .
Pon­ta­no inizia la sua rifles­sione poli­ti­ca scri­ven­do il De prin­cipe, trat­ta­tel­lo epis­to­lare indi­riz­za­to ad Alfon­so, duca di Cala­bria ed erede al tro­no, del quale era pre­cet­tore  ((Gio­van­ni Pon­ta­no, Ad Alfon­sum Cala­briae Ducem De prin­cipe liber, a cura di Gui­do M. Cap­pel­li, tes­to lati­no con ver­sione ita­lia­na a fronte, Roma 2003.
)) . Vi des­crive con intel­li­gen­za e acu­tez­za il sovra­no ideale, ric­co di virtù non sol­tan­to mora­li ma poli­tiche, accor­to, atten­to al benes­sere dei sud­di­ti, alla gius­ti­zia, ma anche agli inter­es­si degli uomi­ni e del Regno. Ora, negli anni dif­fi­ci­li del­la guer­ra di suc­ces­sione e in quel­li imme­dia­ta­mente pos­te­rio­ri fino al 1470, scrive il De obe­dien­tia, trat­ta­to dedi­ca­to all’a­na­li­si e allo stu­dio del­la virtù dell’ob­be­dien­za, che Pon­ta­no consi­de­ra impor­tan­tis­si­ma a tut­ti i livel­li, tan­to nel pri­va­to quan­to nel pub­bli­co, dal­la fami­glia fino al Regno  ((Il De obe­dien­tia, com­ple­ta­to nel 1470, fu stam­pa­to a Napo­li dal tipo­gra­fo Mat­tia Mora­vo nel 1490. Non ne abbia­mo edi­zio­ni moderne ; occorre quin­di ricor­rere alle edi­zio­ni del Quat­tro­cen­to o del Cin­que­cen­to. Qui fac­cio rife­ri­men­to a Gio­van­ni Pon­ta­no, De obe­dien­tia, in Ope­ra omnia solu­ta ora­tione com­po­si­ta, Vene­tiis in aedi­bus Aldi et Andreae soce­ri, tre volu­mi, 1518–1519, vol.I, cc.1–48 (De obe­dien­tia = DO).
)) .
Atten­zione ! Per Gio­van­ni Pon­ta­no qui il pro­ble­ma non è sol­tan­to morale ed eti­co ; anzi ques­to è l’as­pet­to che in ques­to contes­to meno lo inter­es­sa. Ciò che gli impor­ta è la fun­zione sociale e poli­ti­ca dell’ob­be­dien­za ; il suo pro­ble­ma è indi­vi­duare un fon­da­men­to alla socie­tà, a quel­la socie­tà meri­dio­nale lace­ra­ta dagli inter­es­si e dalle intem­pe­ranze dei baro­ni, che ren­do­no impos­si­bile la convi­ven­za ordi­na­ta degli uomi­ni. La for­za da sola non bas­ta ; l’as­tu­zia nep­pure ; gli inter­es­si non gli sem­bra­no suf­fi­cien­ti : occorre qual­co­sa di più, un legame fra gli uomi­ni, che abbia in sé sia la for­za sia la virtù. Ques­to legame per Gio­van­ni Pon­ta­no è appun­to l’ob­be­dien­za. ma quale obbe­dien­za ? Tut­to il suo trat­ta­to è un lun­go e atten­to ragio­nare su ques­to pun­to.
Tut­ta la convi­ven­za uma­na, scrive Gio­van­ni Pon­ta­no, è radi­ca­ta nell’ob­be­dien­za. La pri­ma obbe­dien­za è inter­na all’a­ni­mo dell’uo­mo e consiste nell’ob­be­dien­za delle pas­sio­ni alla ragione, sen­za la quale i moti dell’a­ni­mo vaghe­reb­be­ro incon­trol­la­ti por­tan­do l’uo­mo stes­so alla rovi­na. Ma l’ob­be­dien­za non è sol­tan­to un mero rico­nos­ci­men­to intel­let­tuale o morale delle norme del­la ragione. Se così fosse, l’ob­be­dien­za potrebbe anche res­tare inope­rante sul pia­no concre­to, qua­si com­pia­ci­men­to inter­no dell’uo­mo contem­plante le norme. Invece l’ob­be­dien­za è il concre­to rac­cor­do tra la ragione e la volon­tà dell’uo­mo. Non bas­ta conos­cere il bene, occorre anche voler­lo fare, voler­lo ren­dere concre­to nell’a­gire quo­ti­dia­no, quan­do l’ap­pli­ca­zione del bene può esser­ci fati­co­sa, fas­ti­dio­sa, peno­sa. Qui inter­viene l’ob­be­dien­za, sor­reg­gen­do la nos­tra volon­tà, quan­do ques­ta pre­tende che noi agia­mo ret­ta­mente  ((DO, cc.2r e 5v.
)) .
Da ques­to suo pri­mo luo­go poi l’ob­be­dien­za per­corre tut­ta la socie­tà in tutte le sue mul­ti­for­mi e stra­ti­fi­cate arti­co­la­zio­ni : dal­la fami­glia alla cit­tà al Regno. Gli uomi­ni tut­ti sono lega­ti in una serie di rap­por­ti coman­do obbe­dien­za, fuo­ri dei qua­li nes­su­no può vivere. Il consor­zio uma­no è ret­to dall’ob­be­dien­za, come ci mos­tra­no e dimos­tra­no la natu­ra e la sto­ria. Di obbe­dien­za si scri­ve­va e par­la­va allo­ra, nel Quat­tro­cen­to, anche nelle altre cit­tà ita­liane e in contes­ti mol­te­pli­ci, ma il dis­cor­so pon­ta­nia­no ha qual­co­sa di par­ti­co­lare. A Firenze, per esem­pio, si riaf­fer­ma­va sempre e con for­za la neces­si­tà di obbe­dire alle leg­gi ; il dis­cor­so di Pon­ta­no invece guar­da ai rap­por­ti diret­ti tra gli uomi­ni : ciò che conta è l’ob­be­dien­za dell’uo­mo all’uo­mo, mol­to più di quel­la dell’uo­mo alla legge. C’è negli scrit­ti pon­ta­nia­ni una concre­tez­za dei rap­por­to socia­li, che altrove invece qua­si si vani­fi­ca nel rap­por­to tra legge e uomo. I baro­ni non deb­bo­no obbe­dire a norme astratte, deb­bo­no invece obbe­dire al Re e a chi lo rap­pre­sen­ta.
Negli scrit­ti di Pon­ta­no l’ob­be­dien­za non è mai mera pas­si­vi­tà, mero obbli­go di ese­guire i coman­di del super­iore in osse­quio alla neces­si­tà ter­ri­bile di far fun­zio­nare la socie­tà. L’ob­be­dien­za è rac­cor­do tra ragione e volon­tà, lo abbia­mo appe­na det­to ; ma non bas­ta. All’ob­be­dien­za infat­ti cor­ris­ponde esat­ta­mente e sim­me­tri­ca­mente la gius­ti­zia : se l’in­fe­riore deve obbe­dien­za al super­iore, sim­me­tri­ca­mente il super­iore deve gius­ti­zia all’in­fe­riore. Tut­ta la socie­tà è ret­ta da ques­ti rap­por­ti dupli­ci e biuni­vo­ci : obbe­dien­za dal bas­so ver­so l’al­to, gius­ti­zia dall’al­to ver­so il bas­so. Cosic­ché pos­sia­mo ben dire che l’in­fe­riore ha il dovere di obbe­dien­za al super­iore, ma allo stes­so tem­po ha il dirit­to ad essere gui­da­to e gover­na­to con gius­ti­zia ; e d’al­tro can­to il super­iore ha sì dirit­to all’ob­be­dien­za dell’in­fe­riore, ma allo stes­so tem­po ha il dovere di gover­nare e gui­dare con gius­ti­zia. Ad ogni dovere cor­ris­ponde un dirit­to e ad ogni dirit­to cor­ris­ponde un dovere ; in ogni livel­lo del­la socie­tà  ((DO, c.13r.
)) .
Così nell’o­pe­ra di Gio­van­ni Pon­ta­no l’ob­be­dien­za perde ogni conno­ta­zione di mera pas­si­vi­tà per far­si vero legante sociale e poli­ti­co insieme con la gius­ti­zia. L’ob­be­dien­za qui è par­te­ci­pa­zione alla socie­tà e alla poli­ti­ca, anche per­ché qua­si nes­su­no sarà tenu­to esclu­si­va­mente all’ob­be­dien­za. Sol­tan­to nel livel­lo più bas­so del­la socie­tà esis­to­no uomi­ni, che deb­bo­no solo obbe­dire, come all’al­tro estre­mo il Re ha sol­tan­to obbli­ghi di gius­ti­zia non com­pen­sa­ti da obbli­ghi di obbe­dien­za. Ben­ché sia pur neces­sa­rio ricor­dare che anche il Re deve obbe­dire a Dio ed anche il più umile dei ser­vi deve fare in modo che la sua ragione coman­di gius­ta­mente alle sue pas­sio­ni.
Sia­mo dunque ben lon­ta­ni da quelle cari­ca­ture dell’ob­be­dien­za, inte­sa non più come virtù bensì come difet­to e imper­fe­zione, che cir­co­la­no nel nos­tro mon­do di oggi, nel quale si esal­ta la disob­be­dien­za. Le attua­li des­cri­zio­ni dell’ob­be­dien­za la des­cri­vo­no appun­to come mera pas­si­vi­tà, come rinun­cia ad avere una pro­pria ani­ma, un pro­prio volere ; cosic­ché ogni disob­be­dien­za è inte­sa e valu­ta­ta come meri­to contro l’op­pres­sione, che nell’ob­be­dien­za si incar­ne­rebbe. Non a caso una fran­gia piut­tos­to consis­tente del movi­men­to anar­coide e anti­glo­ba­lis­ta ita­lia­no defi­nisce se stes­sa chia­man­do­si dei “disob­be­dien­ti”.
In tal modo per­al­tro anche chi oggi esal­ta la disob­be­dien­za ne fa un qual­co­sa di mise­ro e ple­beo. Altre volte nel­la sto­ria degli ulti­mi seco­li la disob­be­dien­za è sta­ta esal­ta­ta come mas­si­ma espres­sione di un uomo, che intende e vuole ani­mo­sa­mente spez­zare le regole, vuole diven­tare rego­la e legge a se stes­so, asso­lu­ta­mente e com­ple­ta­mente libe­ro. È il mito dell’uo­mo, che tut­to sfi­da e tut­ti affron­ta, misu­ra uni­ca di se stes­so ; il mito dell’uo­mo com­ple­ta­mente auto­no­mo. E d’al­tronde per­si­no nel tar­do medioe­vo alcune figure di dan­na­ti dell’in­fer­no nel­la Divi­na com­me­dia del nos­tro Dante Ali­ghie­ri han­no una loro gran­dez­za, infer­nale ma gran­dez­za, quan­do con la loro per­ti­nace disob­be­dien­za sem­bra­no qua­si sfi­dare o per­si­no aper­ta­mente e orgo­glio­sa­mente sfi­da­no lo stes­so Iddio, che li ha condan­na­ti. Ma di ques­ta gran­dez­za nul­la res­ta nel­la disob­be­dien­za contem­po­ra­nea, espres­sione mise­ra e minu­ta di un desi­de­rio di fare ciò che piace, di vivere come si vuole non nel­la gran­dez­za di una sfi­da impos­si­bile, bensì nel­la pochez­za del­la quo­ti­dia­ni­tà. Insom­ma : dal­la grande sfi­da al pro­prio pic­co­lo pia­cere quo­ti­dia­no, al pro­prio pic­co­lo como­do, al pre­ten­dere di poter com­piere sen­za rim­pro­ve­ri le pro­prie minus­cole e vol­ga­ri nefan­dezze per­so­na­li.

-->